#GiovedìQueer

Sulle “terapie” di conversione

Le terapie di conversione sono pratiche che mettono in atto un vero e proprio lavaggio del cervello e di tortura, fisica e mentale,  con il presunto scopo di “guarire” le persone LGBTQIA+ dal loro orientamento sessuale o dalla loro identità di genere, quando questi non corrispondono alla “norma” eterocispatriarcale.  Sono purtroppo estremamente diffuse e la percentuale di persone LGBTQIA+ colpite in prima persona varia molto a seconda dell’area geografica:  in Canada, per esempio, arriva al 10%. Queste pratiche generano disgusto e ribrezzo immediati e in molti paesi stanno finalmente diventando illegali, però, per quanto sembrino un tema remoto e su cui tutto sommato c’è una condanna quasi universale, almeno tra chi abitualmente ci legge, abbiamo ritenuto importante parlarne per diversi motivi. Anzitutto, l’Italia è ben lontana dal bandirle: c’è stato in merito un progetto di legge presentato nel 2016, limitato alle sole terapie su minorenni e mai discusso in Parlamento. Inoltre, nella promozione e nell’esecuzione pratica di queste forme di tortura sono spesso coinvolte in prima persona le chiese e le organizzazioni religiose di vario tipo e denominazione, quindi in quanto Cristian* è fondamentale esprimere la nostra posizione contraria. Ultimo, ma forse elemento più importante: molte persone attorno a noi ne sono colpite direttamente, anche se magari non ne hanno mai parlato con noi, quindi il nostro sostegno è vitale.

Iniziamo proprio con una testimonianza personale, per poi concludere con qualche riga più tecnica che speriamo possa essere utile non tanto per convincere chi ci legge, quanto per dare qualche strumento in più nel dibattito su questi temi.

Disclaimer: questo brano parla di salute mentale, di orientamenti sessuali non conformi e infine anche di fede, ma non vuole in nessun modo elevare la fede a unica esperienza curativa, né tantomeno contrapporla ad adeguate terapie psicologiche o farmacologiche.

La prima domanda che mi fece la dottoressa R., quella che sarebbe stata la mia psicoterapeuta per i successivi quattro anni, fu, ovviamente, chiedermi perché fossi lì. Il problema fu rispondere, però: formulare un discorso preciso, scegliere le parole, presentare l’angolazione giusta per dare una rappresentazione rispondente alla realtà di come mi sentissi in quel momento.
Perché ero lì? Perché stavo male, banalmente. Perché non ero felice, e forse non lo ero davvero mai stata, e per anni mi ero domandata come mai mi sentissi così profondamente aliena rispetto al resto delle persone che conoscevo. Tutto fino a quando non avevo incontrato una persona che mi aveva fatta sentire finalmente compresa e amata, per poi uscire dalla mia vita sbattendo la porta, e lasciandomi ancora più sola, disorientata e dolorante di prima. E quella persona era una donna, come me. “Ti sei innamorata di lei?” -mi domandò la dottoressa R, con un’aria eccessivamente solenne. Non ricordo cosa le risposi. Ricordo però quel che la dottoressa scelse di fare, a quel punto della nostra conversazione: un disegno.
Vedi, mi disse, l’uomo (e lì disegnò il pupazzetto che rappresentava l’uomo, cioè il maschio) dà energia alla donna attraverso il sesso. Prontamente, disegnò una freccetta che, dal fondo della figura dell’uomo, si spostava, con un movimento circolare, in avanti e verso l’alto, E la donna, mi disse, restituisce l’energia all’uomo attraverso il cuore: dalla cima della figura della donna disegnò poi una freccetta, che si spostava all’indietro e verso il basso.

Alla parete dello studio, proprio di fronte a dove sedevo io, era esposta la laurea della dottoressa, in medicina e chirurgia, e la specializzazione in psichiatria, come usava ai suoi tempi, quando la facoltà di psicologia ancora non esisteva. Insomma, avevo di fronte una donna di scienza, almeno sulla carta, ma la carta che a me lasciò quel pomeriggio fu il disegnino con i pupazzetti che spiegava che avevo “le energie invertite”: quella fu la mia diagnosi.
A quel tempo ero molto propensa a credere che il mio orientamento sessuale fosse la causa del mio sentirmi aliena. Erano gli anni a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio: di persone omosessuali dichiarate ne conoscevo forse una (maschio, gay, era l’unica identità queer visibile a quell’epoca); di persone trans, o bisessuali, non ne avevo mai consapevolmente incontrate -e ovviamente di tutte le altre identità non avevo neppure mai sentito parlare: l’acronimo era solo LGBT, e non lo conosceva quasi nessuno. Io sì, perché venivo da una famiglia progressista e perché leggevo tutto ciò che potevo leggere sull’argomento, ma non ero ancora riuscita a sciogliere il nodo che riguardava me: gli uomini a me piacevano, e anzi, più frequentemente rispetto alle donne. Forse allora avevo davvero bisogno di riequilibrare le mie energie e farle girare per il verso giusto. Se era per smettere di stare così male, ed essere finalmente felice, perché no?

Seguirono mesi in cui parlammo perlopiù d’altro, ma ogni tanto la dottoressa R. aggiungeva un tassello a quella che era la sua diagnosi su di me e sul motivo per cui ero lì:
-che era del tutto normale provare attrazione omosessuale, soprattutto in giovane età (quindi, in fondo, era una fase, da cui si doveva necessariamente uscire se si voleva crescere);
-che tale attrazione era riconducibile a una originaria conflittualità con il genitore del proprio sesso, quindi, nel mio caso, con mia madre (che io avessi, effettivamente, una conflittualità importante con mia madre, costituiva dunque una prova);
-che ben il 70% della popolazione mondiale sperimenta almeno una volta nella vita questo tipo di attrazione (il che era un dato rassicurante, anche se non so quanto accurato);
-che però non c’era niente di genetico nell’orientamento sessuale, perché era stato provato (non si sa da chi e dove) che alcuni omosessuali (gay, maschi, perché esistevano sempre e solo quelli) erano riusciti a fare sesso con delle donne, e perciò, voilà. si poteva guarire!
Io avevo disperatamente bisogno di guarire, e perciò mi attenevo scrupolosamente a tutte le sue indicazioni su come vivere, cosa leggere, che musica ascoltare, cosa mangiare e come pensare per “riequilibrare le mie energie”. E questo non poteva che rendere ancor più difficile la guarigione, perché era vero che stavo male, ma non a causa del mio orientamento sessuale: stavo male perché avevo subito abusi, lievi ma certi, per tutta la vita, dalle persone che più amavo, dalla donna che avevo amato, e, per finire, ne stavo subendo anche dalla mia psicoterapeuta.
Come è stato possibile che lo accettassi? Oggi so che chi abusa non è, come si tende a credere, sgradevole, crudele e meschinǝ 24 ore su 24. Chi abusa è spesso seducente, simpaticǝ, affettuosǝ, e ti fa sentire accoltǝ mentre ti propina la sua verità su di te. E tu ci credi, a maggior ragione se è unǝ medicǝ, e se, con il passare del tempo, ti loda perché ha visto in te dei cambiamenti, dei traguardi conquistati verso l’ambita guarigione.
-Rispondi a bruciapelo -mi disse, proprio dopo avermi fatto una di queste lodi, al termine di una seduta che entrambe avevamo trovato particolarmente intensa e fruttuosa -adesso, tu faresti l’amore con un uomo o con una donna?
Scoppiai a ridere, perché “adesso”, cioè in quel momento, all’ora di cena e dopo una giornata sfiancante, tutto quello che volevo davvero fare era filare in macchina, tornare a casa, mangiare qualcosa e buttarmi sul divano a guardare una scemenza in televisione, e neanche lontanamente mi sfiorava il pensiero di fare l’amore con chicchessia. Scoppiai a ridere perché quella era una domanda che non aveva nessun legame con i discorsi che avevamo affrontato quel giorno, non me l’aspettavo per niente e non riuscivo a capirne la connessione con le lodi appena ricevute per i miei presunti passi avanti. Scoppiai a ridere per imbarazzo, perché sì, lei era la mia terapeuta da anni e sapeva molte cose di me, ma questo non le dava il diritto di rivolgermi domande inopportune sull’oggetto del mio desiderio non solo sessuale, ma anche romantico, intimo, proprio di una dimensione nella quale io non l’avevo certo invitata. Scoppiai a ridere, superai l’imbarazzo e cercai di interrogarmi sul punto, per rispondere in maniera sincera alla domanda che mi veniva posta.
-Col primo dei due che mi capita a tiro! – risposi, fieramente. E così feci, poi, con calma, quando mi capitò qualcunǝ a tiro.
Non avevo ancora capito quanto di profondamente sbagliato ci fosse in quella domanda, in quel foglietto con i pupazzetti “uomo” e “donna” disegnati come fossero due pile stilo, e in tutta la mia esperienza con la dottoressa R., ma avevo capito che quella domanda era insensata, che mai per me avrebbe avuto la stessa univoca risposta, che aveva molte più di due sole possibili risposte mutualmente esclusive, e che nessuna di quelle risposte era migliore di un’altra (a patto ovviamente di rispettare il consenso di eventuali partner coinvoltɜ).
Non fu allora che smisi di andare dalla dottoressa R. Smisi in un giorno qualsiasi, diverso tempo dopo, semplicemente dimenticandomi di andarci. Alla telefonata della sua segretaria risposi scusandomi, e che avrei chiamato io per fissare un nuovo appuntamento. Non tornai più.

Oggi ho due parole per definire il mio orientamento: pansessuale, che significa che sono attratta dalle persone, a prescindere dal genere, e demisessuale, che significa che prima di essere attratta da qualcunǝ devo conoscerlǝ bene, instaurare con lǝi un legame profondo, e fidarmene. Oggi so perché da adolescente stavo male: stavo male in un mondo eteronormativo, intriso di patriarcato e mascolinità tossica, dove da me ci si aspettavano comportamenti e pensieri che non mi erano propri, e ai quali non riuscivo in nessun modo a conformarmi, e dunque non trovavo nessuna appartenenza, e nessuna felicità. Ma per fortuna stava per arrivare per me la vera guarigione da questo dolore che sembrava insanabile: l’incontro con Dio, che conosce i miei affanni, mi accompagna, mi indica una via d’amore per l’altrǝ, riflesso del suo grande, incondizionato e perpetuo Amore per tutta l’umanità; l’incontro con una comunità di fede umana e imperfetta, ma che volenterosamente si è messa in cammino verso il riconoscimento di tutte le identità e gli orientamenti con cui noi esseri umani ci presentiamo e ci esprimiamo; e l’incontro con una Federazione Giovanile che ha salutato la mia stranezza come un tratto peculiare, un dono, e non mi ha chiesto altro, se non di mettere questo dono a disposizione, di “alzarmi e mettermi in mezzo”, come dice Gesù (in Luca 6:8) all’uomo con la mano destra paralizzata, chiedendo alla folla di includerlo, e di farlo prima che fosse guarito. 

Amicǝ queer, se ti senti male in questo mondo, io ti capisco, e se stai pensando di andare in terapia, io te la consiglio, come la consiglio a tuttɜ, perché credo che tutti gli esseri umani abbiano solo da guadagnare da un confronto con sé stessi, con il proprio passato, la propria identità e i propri limiti. Però, se stai pensando di andare in terapia, assicurati che chi hai davanti sia unǝ professionista aggiornatə sugli standard del terzo millennio; che non si permetta di farti domande inopportune e invasive; e che non cerchi di guarirti dal tuo orientamento romantico e sessuale o dalla percezione che hai del tuo genere: altrimenti perdi solo tempo. Non si guarisce da sé stessǝ, si diventa sé stessǝ, imparando a conoscersi, con fatica e con amore. La terapia deve servirti solo a questo.

Le “terapie” di conversione: perché no

“Terapia di conversione” è un concetto ampio, che si riferisce a varie pratiche con una base comune: il presupposto che l’orientamento sessuale e l’identità di genere possono, e devono, essere cambiati. In altre parole, si fondano su due convinzioni: la prima è che tutti gli orientamenti non strettamente eterosessuali e tutte le identità di genere non strettamente cisgender siano delle malattie da curare; la seconda è che sia possibile farlo. Ci concentreremo sul vedere perché queste due fondamenta siano false, mentre in fondo troverete alcuni suggerimenti per letture più approfondite sul tema.

Per quanto riguarda la prima, l’aspetto più rilevante è sicuramente che ormai da quasi trent’anni l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rimosso l’omosessualità dall’elenco delle malattie e nel 2018 è cominciato l’iter che riconosce la depatologizzazione della transessualità che verrà rimossa dallo stesso elenco a partire dal 1 gennaio 2022. Si tratta di una scelta che non deriva da formule matematiche nelle quali si inseriscono parametri oggettivi e che danno una risposta altrettanto oggettiva: è una scelta politica. È la scelta di non considerare “malato” ciò che è “deviato dal normale”, perché la normalità nella natura non esiste ed è definita, di nuovo, da scelte politiche; è la scelta di far entrare nel concetto di salute e malattia non solo l’ambito organico, chimico e biologico, ma anche il vissuto della persona. La salute, sempre secondo l’OMS, è definita come “uno stato completo di benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o infermità”. Non c’è dubbio che una persona LGBTQIA+ possa trovarsi ben lontana da questo completo benessere e che possa soffrire proprio a causa del suo orientamento sessuale o della sua identità di genere, ma la sofferenza da dove arriva? Da orientamento sessuale ed identità di genere o dalla società che, sulla base di quelli, ti perseguita? Chi ha bisogno di essere curata, la persona LGBTQIA+ o la società? La comunità medica internazionale ha deciso che è la società, perché non c’è nulla nell’essere LGBTQIA+ che causi, di per sé, sofferenza.

La possibilità di ottenere un risultato, secondo presupposto della terapia di conversione, semplicemente non c’è. Questa volta non è un concetto politico o opinabile, è un dato di fatto che emerge dai tentativi che purtroppo sono stati fatti. Anzi, nelle forme più estreme di terapia di conversione, è stato provato che le persone ne escono con danni severi all’autostima, problemi di ansia, depressione ed isolamento sociale con impossibilità di raggiungere l’intimità, odio per se stess*, senso di vergogna e di colpa, sindrome da stress post-traumatico e, in ultimo, ideazione suicidiaria e tentativi di suicidio. Ogni terapia ha i suoi rischi e i suoi costi, in termini di danno causato dalla terapia stessa, che vanno considerati e confrontati con i risultati che si possono ottenere. Ogni medicǝ deve chiedersi, in “scienza e coscienza”, ovvero secondo la propria formazione ed etica, se il rapporto tra i rischi di un trattamento ed i benefici se ne ricavano sono accettabili. Ne deriva una conclusione fondamentale, per quanto riguarda la “terapia di conversione”: non può essere effettuata nemmeno su una persona adulta, consenziente e perfettamente messa al corrente di tutte le sofferenze a cui si dovrà sottoporre.

Le Nazioni Unite hanno lavorato sul tema producendo un report, di cui esiste anche un volantino informativo, in inglese, con i concetti chiave spiegati in modo semplice. Alcuni fatti estratti da questa pubblicazione:

  • Ad essere sottoposte alle “terapie di conversione” sono per la maggior parte persone non consenzienti, costrette a sottoporsi da tribunali o dai genitori, 2 vittime su 5 sono minorenni;
  • Le autorità e le organizzazioni religiose hanno un ruolo centrale nella promozione e nello svolgimento pratico di queste “terapie”, spesso avvalendosi del fatto che possono operare in una zona grigia legale utilizzando le leggi per la libertà di culto;
  • Quello delle “terapie di conversione” è un vero e proprio business, in cui le organizzazioni ricorrono alla frode e alla falsa pubblicità di risultati inesistenti per convincere le persone a sottoporsi oppure ad inviare i/le propri/e figli/e;
  • All’atto pratico, le “terapie di conversione” consistono in una miscela di psicoterapia, terapia medica o chirurgica e percorsi spirituali. Alcuni esempi: elettroshock, uso di farmaci che inducono nausea o paralisi, terapie ormonali, chirurgia “gender affirming” per rinforzare l’identità di genere nell’ipotesi, naturalmente falsa, che influenzi l’orientamento sessuale, esorcismi e torture fisiche;
  • Le “Terapie di conversione” sono una pratica lesiva dei diritti umani, sia perché prendono di mira in modo discriminatorio un gruppo di persone individuato come “inferiore”, sia perché si tratta di vere e proprie torture.

L’invito finale è quello di rendere queste pratiche completamente illegali, come di recente è stato fatto in Canada e Norvegia (articolo), e come è proposto in una petizione anche per l’Italia

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