Benjamin L. Corey è un antropologo culturale e teologo statunitense. Recentemente ha pubblicato sul suo blog un elenco di ragioni per cui, negli ultimi tempi, sempre più persone che si confessano cristiane affermano anche la necessità dell’accoglienza di tutte le identità LGBTQIA+ nella chiesa, senza alcuna limitazione agli incarichi e ai ministeri a loro affidati, e ovviamente senza alcuna pretesa di “conversione all’eterosessualità”. Questo tipo di chiese viene definito affirming in opposizione alle posizione non-affirming di quelle comunità che hanno invece intenti discriminatori.
Abbiamo deciso non di tradurre l’articolo, che potete trovare qui in originale, ma di presentare queste cinque ragioni e di rifletterci insieme, consapevoli che l’esperienza del protestantesimo statunitense è molto diversa da ciò che viviamo e abbiamo vissuto quotidianamente nelle chiese battiste, metodiste e valdesi in Italia.
- Moltɜ più cristianɜ stanno studiando di più e meglio la Bibbia
Questa prima ragione è quella che forse risente di più della distanza geografica e culturale che ci separa dagli Stati Uniti, dove il protestantesimo, che negli USA probabilmente ha forme più varie che in altre parti del mondo, è la religione “di maggioranza”. L’autore attribuisce al “cristianesimo statunitense del passato” un vizio che spesso in Italia è associato alla Chiesa Cattolica Romana, ma che in generale si può ritenere comune a tutte le religioni molto diffuse: quello di trasmettere gli insegnamenti della religione stessa già interpretati, magari da figure pastorali con scarsa formazione teologica, allontanando quindi l’insegnamento dalla fonte iniziale, che sia la Bibbia o altro testo sacro. L’esperienza descritta è quella di “credenti occasionali”, che nell’infanzia ricevono un insegnamento, che sia di scuola domenicale o catechismo, su cosa sia giusto o sbagliato secondo le posizioni del momento. Queste persone, poi, solitamente frequentano le rispettive chiese troppo di rado e troppo superficialmente per mettere in dubbio ciò che sanno o che pensano di sapere.
C’è il rischio che, da protestanti italianɜ, non ci sentiamo toccatɜ da questo problema. Se da una parte siamo orgogliosɜ del fatto che la meditazione della Scrittura, fatta in prima persona, in modo democratico e sostenuta dallo studio della teologia, sia un tratto distintivo della nostra identità, dall’altro dobbiamo ammettere che si tratta di un esercizio molto faticoso, che facilmente passa in secondo piano nelle nostre vite. Eppure sono proprio due gli elementi che ci permettono di accorgerci degli errori delle generazioni che ci hanno preceduto: lo studio diretto della Bibbia, anche senza interpretazione altrui, e la preparazione teologica, da non delegare interamente a pastorɜ e catechistɜ, ma che è importante coltivare anche individualmente. Ad esempio, grazie a tutto ciò, sappiamo che il concetto di relazione omoaffettiva come lo intendiamo oggi non è paragonabile a ciò che è trattato dalle epistole di Paolo, che si confrontava più che altro con la cultura greca e romana in cui il sesso, spesso indifferentemente tra persone dello stesso genere oppure no, non aveva tanto a che fare con relazioni sentimentali, quanto con eccessi, idolatria ed abuso, a volte anche di bambinɜ o giovanissimɜ. Allo stesso modo, sappiamo che la Legge dell’Antico Testamento è stata completata dall’insegnamento di Gesù, rendendo evidentemente necessaria una nuova interpretazione dei passaggi legati all’omosessualità, al pari di quelli legati al consumo di frutti di mare o alle punizioni da infliggere per i vari crimini. Quanto a Gesù stesso, poi, sappiamo bene che nessuno dei Vangeli contiene una condanna delle persone o degli atti omosessuali. Questo silenzio è ancor più eloquente, sapendo che Gesù si era formato in una società fondata sulla Legge illustrata nel Levitico, e mostra come, sostanzialmente, non ci fosse da parte sua nessun interesse ad approfondire la tematica, e soprattutto a parlarne come di un male o di un peccato.
Quindi, afferma Corey, non è a dispetto di ciò che la Bibbia dice che moltǝ cristianɜ hanno abbracciato una teologia accogliente delle identità LGBTQI+, ma proprio a causa di ciò che la Bibbia dice. Di questo torneremo a parlare al punto 5.
- Moltɜ più cristianɜ stanno capendo che essere queer non è una scelta
Un numero sempre più alto di cristianǝ sta iniziando a capire che non ci si può pentire di essere omosessuali, bisessuali o transgender come non ci si può pentire di essere mancinɜ: sebbene la scienza non abbia ancora scoperto le cause dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, quel che oggi è chiaro è che sono tratti presenti fin dalla nascita o che compaiono talmente presto nello sviluppo che non è possibile in alcun modo sovvertirli. Del resto, non esiste una sola persona che abbia scelto di essere com’è, comprese le persone eterosessuali.
La scienza, ovvero il vasto insieme di conoscenze sul Creato ottenuto grazie allo studio delle molte persone che vi si sono dedicate, può essere vista come un dono di Dio che ci arriva grazie all’ingegno anch’esso donato ed ispirato a varie persone nel corso della storia. Come tanti doni di Dio, gli esseri umani possono poi decidere se utilizzarli per compiere il Suo volere o per tornaconto personale. È nostra responsabilità agire secondo queste conoscenze ed accettarle nella nostra vita di fede. Tra queste, è importante per il nostro discorso di oggi quanto è successo il 17 maggio del 1990, quando l’omosessualità è stata tolta dall’elenco delle malattie mentali. Abbiamo la fortuna di avere accesso a più conoscenza di quanto non ne avessero le persone che sono venute prima di noi, quindi abbiamo la responsabilità e il mandato, di nuovo, di confrontarci quotidianamente con le Scritture alla luce di ciò che conosciamo del mondo.
Purtroppo, la convinzione che si possa scegliere di essere eterosessuali e cisgender, o addirittura che si possa “guarire” dall’omosessualità o da altri orientamenti sessuali o identità di genere, ha fatto molti danni nel corso della storia, e anche di questo parla il punto 3:
- Moltɜ più cristianɜ stanno scoprendo quale sia il reale impatto di una teologia non accogliente
È difficile al giorno d’oggi non rendersi conto delle difficoltà che incontrano le persone nella comunità LGBTQIA+, in modo particolare quelle giovani. Sempre più cristianɜ si stanno rendendo conto che la condanna da parte delle proprie chiese delle persone LGBTQIA+ ha conseguenze negative, che vanno dal loro allontanamento dalla vita della chiesa a situazioni ben più drammatiche, in cui giovani possono rimanere senza casa perché cacciatɜ dai propri genitori o addirittura essere portatɜ al suicidio. È innegabile che le situazioni più tragiche nascano dal rifiuto e dall’isolamento che la teologia “non-affirming” coltiva per sua stessa natura, anche senza spingere esplicitamente all’allontanamento di figli e figlie da casa o addirittura al suicidio.
“Come posso mantenere la mia condanna all’omosessualità, alle identità di genere non conformi alla tradizione patriarcale, senza però danneggiare nessunǝ, tantomeno spingere nessunǝ al suicidio?” Si tratta di un pensiero legittimo, con cui si confrontano molte persone che aderiscono in buona fede a teologie “non-affirming”. “Condanniamo il peccato, mai la persona che lo compie” è uno dei pensieri che si sente spesso in risposta, ma non è coerente con quanto dicevamo sopra; non parliamo di scelte, né di vizi, né di decisioni: parliamo di persone e del loro modo di essere, di ciò che sono. Un’altra pratica ricorrente è quella di mostrarsi accoglienti con le persone LGBTQIA+, e disponibili ad accettare l’idea che la loro identità non possa cambiare, ma solo a condizione che non la vivano pubblicamente e nella pratica -cioè, in sostanza, non abbiano rapporti con persone del proprio genere o non intraprendano un percorso di transizione. Anche questa è una forma di condanna molto pesante, che comporterebbe una punizione per moltɜ insostenibile e ingiustificata. Riportiamo qui i paragrafi 2358 e 2359 del catechismo della chiesa cattolica, il quale, ancora oggi, afferma:
2358 Un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta tendenze omosessuali profondamente radicate. Questa inclinazione, oggettivamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro una prova. Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione. Tali persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, e, se sono cristiane, a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione.
2359 Le persone omosessuali sono chiamate alla castità. Attraverso le virtù della padronanza di sé, educatrici della libertà interiore, mediante il sostegno, talvolta, di un’amicizia disinteressata, con la preghiera e la grazia sacramentale, possono e devono, gradatamente e risolutamente, avvicinarsi alla perfezione cristiana.
Tali affermazioni vorrebbero apparire “moderne” e accoglienti, ma è davvero difficile non osservare che, in poche righe, vengono prese molte posizioni tutt’altro che accoglienti. Anzitutto viene presa in considerazione la sola omosessualità, chiamata tra l’altro “tendenza” o “inclinazione” e definita “disordinata”, intendendola come unico contenitore di tutto ciò che non è in linea con la tradizione eteronormativa. Vi è un invito al non discriminare le persone LGBTQIA+, ma successivamente è scritto che sono chiamate alla castità come unica scelta nella vita sentimentale, poiché la dottrina cattolica è ancora fortemente legata all’indissolubilità tra rapporti sessuali e finalità procreative, rendendo impossibile per le persone che vivono relazioni omoaffettive, a differenza di quelle eterosessuali, una qualsiasi possibile intimità sessuale, il che sembrerebbe proprio un atto di discriminazione. Ancor più forte è l’affermazione secondo cui le persone queer debbano unire al sacrificio della croce le difficoltà incontrate in vita (di solito, poi, proprio a causa di chi le discrimina!). Eppure, leggiamo che “Cristo ci ha liberati perché fossimo liberi”: per quale motivo dovremmo, in riferimento alla sofferenza di Cristo, affermare che la sofferenza è il destino di una certa categoria di persone?
Allora, se la domanda diventa “come posso condannare una persona senza farle del male?”, la risposta, per l’autore dell’articolo originale, che noi condividiamo, è “non posso”. Ed è stata questa assenza di risposta a portarlo a difendere le istanze della comunità LGBTQIA+ all’interno della propria chiesa.
Per l’autore e per sempre più cristianɜ, l’apertura per la comunità LGBTQIA+ è l’unica posizione moralmente giustificabile.
- Moltɜ più cristianɜ stanno capendo che hanno di fronte delle persone, e non un problema astratto
Per le generazioni precedenti, che vivevano in società lontanissime dall’accettazione delle persone LGBTQIA+, il problema era di natura perlopiù astratta, perché trattava di persone che nascondevano la propria identità o che vivevano nell’emarginazione. In passato era più facile avere paura “dei gay” o “dei trans”, come erano chiamate le persone LGBTQIA+, perché si trattava di figure appartenenti ad un immaginario stereotipato e caricaturale, creato in larga parte proprio dalla retorica omobitransfobica . La maggior parte delle persone non conosceva, o meglio, era convinta di non conoscere nessuna persona reale appartenente alla comunità queer.
Oggi non è più possibile per nessuno pensare alla comunità LGBTQIA+ come una questione astratta, disumanizzata. Sempre più persone hanno il coraggio di identificarsi pubblicamente come LGBTQIA+ e di condividere le loro esperienze, le loro storie. Per la maggior parte delle persone, oggi, quando si parla della comunità LGBTQIA+ si parla di persone in carne ed ossa, che si conoscono direttamente: amici, amiche, vicinɜ di casa, fratelli, sorelle, figli, figlie.
“Umanizzare un problema” significa accettare la sfida di mettersi nei panni dell’altrǝ, di riconoscerlǝ come essere umano. Una volta compiuto questo passaggio, non ne possono non seguire altri: si provano compassione ed empatia, che portano alla piena accettazione e al sostegno per il proprio fratello o sorella.
Naturalmente anche in questo caso entrano in gioco differenze culturali e geografiche. Quello che noi e l’autore originale, in modo volutamente provocatorio, descriviamo come “il passato”, è ancora la realtà quotidiana di moltissime persone in ogni parte del mondo, anche negli stessi Stati Uniti e in Italia. Quello che è altrettanto vero in tutto il mondo, è che più una persona prova sincero affetto per le persone LGBTQIA+ nella sua vita, più difficile diventa l’adesione ad una teologia o ad una chiesa che le condanna.
- Moltɜ più cristianɜ stanno arrivando alla conclusione che è necessario predicare un messaggio di speranza, e la speranza è totalmente assente dalle teologie non accoglienti
Il crisitanesimo è principalmente un messaggio di speranza e di amore, elementi che non possono essere offerti dalle teologie “non-affirming”. È sempre più difficile non accorgersene.
Il miglior messaggio che può arrivare da una teologia non accogliente è “La tua unica speranza di non andare all’inferno quando muori è passare il resto dei tuoi giorni nella solitudine, resistendo strenuamente a soddisfare i tuoi bisogni primari fisici ed emotivi.” Non si tratta di un’esagerazione, ma proprio del messaggio più speranzoso che possa arrivare da una teologia che condanna le persone LGBTQIA+: celibato/nubilato forzati e solitudine per evitare l’inferno.
È chiaro che è quantomeno difficile predicare un simile messaggio ad una persona. Sempre più cristianɜ si stanno accorgendo che il cristianesimo non può contenere insegnamenti così privi di speranza e che nell’amore di Cristo non c’è spazio per le condanne senza appello alla solitudine.
…
Per concludere, se è vero ed a tratti deprimente che molte denominazioni e comunità cristiane trovano nell’inclusione della comunità LGBTQIA+ motivo di contrasto e divisione, si tratta anche di qualcosa di positivo: un numero sempre crescente di cristianɜ sta intraprendendo il difficile cammino di mettere in discussione le proprie vecchie convinzioni e l’amore sta vincendo.
Veglie di preghiera contro l’omobitransfobia: un cammino in Italia
In Italia fa movimenti e manifestazioni per il riconoscimento ed il rispetto delle persone LGBTQIA+ in ambito cristiano sono aumentati soprattutto nell’ultimo decennio, durante il quale hanno preso vita le veglie per l’omobitransfobia. La data di riferimento per lo svolgimento delle veglie è il 17 maggio, il giorno in cui, nel 1990, l’omosessualità è stata rimossa dall’elenco delle malattie mentali. Oggi le veglie sono un momento importante nella vita di molte comunità e sono un’occasione di lavoro ecumenico. Si tratta inoltre di momenti importanti anche per la sensibilizzazione delle persone che non considerano l’inclusione di persone LGBTQIA+ una tematica di primo piano. È importante notare che la veglia è centrata sul peccato di omobitransfobia: è questo ad essere problematizzato, non la presenza di persone LGBTQIA+ e la loro accettazione. Non si tratta soltanto di un momento in cui pregare per le altre persone, ma di un’occasione per riconoscere i propri comportamenti e pensieri omobitransfobici, sia come persone LGBTQIA+, sia come alleati ed alleate.