#GiovedìQueer News

Una giraffa sui pattini a rotelle entra in un bar ed ordina una birra

Che l’abbiate voluto o meno, questa frase ha prodotto delle immagini nella vostra testa. Ma se il linguaggio è così potente da farvi immaginare una cosa che non potrete mai vedere nella realtà, è altrettanto vero che NON usare determinate parole farà sì che non vedrete mai ciò che invece esiste e vi circonda.

E così la nostra visione sessista ci rende sgradevoli all’orecchio parole come architetta, chirurga, ingegnera ecc…
Ma professioniste in questo campo ci sono, e si meritano di essere descritte con le giuste parole. Parole che poi, va ribadito, esistono, “naturalmente” potremmo dire, nella grammatica italiana, ma purtroppo i dizionari registrano quello che la comunità parlante usa, e la comunità parlante italiana, che è sessista, non vuole usare questi termini. Ma, guarda caso solo le professioni “di potere” o marcatamente “maschili” creano questo fastidio: avete mai sentito una persona lamentarsi della cacofonia della parola cassiera?

Queste riflessioni non sono nuove: le aveva portate all’attenzione già Alma Sabatini nel 1987! Tuttavia, quasi 35 anni dopo, la situazione non è migliorata, anzi, in alcuni ambienti la declinazione al femminile si sbandiera per escludere le identità che, lungi dall’essere nuove, hanno finalmente un nome per essere descritte. Ora che l’angolino sicuro del binarismo di genere viene finalmente messo in discussione, ecco che si corre a stringere quel poco di spazio che non sia mai venga messo in condivisione. Ma cosa ci spaventa davvero? Perché ci si offende se ci viene detto che siamo cisgender? Sarà forse che per anni abbiamo usato trans come insulto? Sarà forse che tocca anche a noi ammettere di avere dei privilegi? Forse ancora non ci si rende conto di come le nostre parole creino, diano senso oppure escludano; come, da una semplice desinenza alla fine di una parola, passi la rappresentazione di persone altrimenti inesistenti.  Accanto a noi nelle piazze dei Pride sfilano bandiere diverse dalla nostra ed i loro colori non sono meno brillanti dei nostri.

Da anni ormai il PRIDE si è liberato  di quella connotazione legata esclusivamente al mondo GAY. Partecipano sempre più persone, associazioni di differente appartenenza, e anche alleati e alleate non  appartenenti quindi al mondo LGBTQIA+. L’orgoglio accompagna tutte le soggettività che la società, la politica, il linguaggio cercano di mettere nell’angolo o di identificare come errate. Il mese di giugno è l’occasione per riscoprirsi comunità variopinte accomunate dall’esperienza dell’esclusione e della violenza, dell’impossibilità di accedere a certi diritti. Ma diventa anche l’occasione per riflettere su come, spesso, le stesse esclusioni siano operate all’interno di questa stessa comunità, che fatica nell’essere pienamente intersezionale e aperta, a cominciare dall’uso del proprio linguaggio e alla presa di coscienza della propria posizione. La nostra storia, di persone legate a questa comunità, ci ha fatto vedere come il peso delle parole sia importante: ci sono parole che escludono, altre che riconoscono, parole che feriscono altre che portano fierezza. Non è un caso che  per insultare un uomo  si possono uare una vasta gamma di parole dispregiative legato al mondo gay: frocio, ricchione, finocchio…Mentre non esistono insulti per le donne lesbiche se non lesbica stessa, diventata suo malgrado un insulto: quelle parole che, appiccicate addosso, succhiano via la propria autostima, il proprio orgoglio, fino ad abbatterci. Finché non si decide di accogliere quell’insulto e farlo diventare parte della propria identità, singola e collettiva. Abbiamo vissuto, e ancora viviamo sulla nostra pelle la violenza del linguaggio. Forse proprio a noi tocca fare una reale riflessione sul potere delle parole, sulla loro valenza politica e smascherante del sistema etero-cis-normativo e patriarcale di cui la nostra cultura è intrisa. Forse è proprio in occasione del mese del Pride, che possiamo riflettere su come l’orgoglio condiviso abbia bisogno di essere riletto e ri-allargato a coloro che non hanno visibilità, per poterle far salire sul carro della piena esistenza e urlare a pieni polmoni “anche io esisto e resisto”.

Su questi argomenti rifletteremo insieme giovedì 24 giugno, durante l’evento “Pride o Pridə?: L’orgoglio e la rappresentazione anche attraverso il linguaggio“.

Durante l’evento avremo l’occasione di ascoltare le testimonianze di Majid Capovani e Valentina Coletta.

Majid Capovani è attivista transgender, non binary e queer, si occupa di numerose tematiche, tra cui diritti LGBT+, linguaggio inclusivo, antirazzismo e femminismo. Fa parte di Sono L’Unica Mia e Genderlens ed è autore presso il magazine online Intersezionale.

Valentina Coletta è attivista trans e femminista. Operatrice sociale esperta in tematiche LGBTI+ e migrazioni. Laureanda in psicopatologia è metodista e fa parte della Refo (Rete Evangelica Fede e Omosessualità).

Per maggiori informazioni sull’evento e per le iscrizioni, clicca qui. Non mancate!

In attesa dell’evento e in occasione del Pride Month, il gruppo del #GiovedìQueer ha inoltre realizzato questo video…buona visione!